Il Tar Lazio ha accolto le nostre tesi a difesa del Comune, respingendo il ricorso di un'emittente televisiva che ha impugnato l'ordinanza di demolizione di tralicci televisivi perché abusivi.
Leggasi testualmente:
"Da tali premesse deriva quindi l’infondatezza di tutti i motivi di ricorso. 5.1. Con il primo di essi, si afferma che l’opera non avrebbe richiesto titolo abilitativo o autorizzazione paesaggistica, in quanto di modeste dimensioni, e comunque risalente nel tempo. A tale scopo viene esibita una sentenza del Tribunale penale di Roma, che nel 1989 ha assolto un imputato, per avere realizzato, a dire della ricorrente, proprio le opere abusive in questione, sia perché esse non avrebbero richiesto titolo abilitativo, sia dal reato punito dall’art. 734 cod. pen. (distruzione o deturpamento di bellezze naturali). Il Tribunale osserva, anzitutto, che il giudicato penale non è invocabile se non da parte della persona nei cui confronti si è formato, e con riguardo alla sola sussistenza materiale dei fatti che il giudice penale abbia accertato, come stabilisce l’art. 654 c.p.p.. Nel caso di specie, esso non può pertanto vincolare questo giudice, con riguardo alla valutazione giuridica in ordine alla necessità di munirsi di concessione edilizia per la realizzazione dell’opera.
Sul punto, deve invece ritenersi che la esecuzione di un traliccio su base in cemento armato, quale piattaforma delle antenne, opera una trasformazione permanente del suolo, tale che la licenza edilizia sarebbe stata necessaria anche negli anni ‘70 e ‘80 (la giurisprudenza amministrativa a quei tempi escludeva dalla necessità del titolo edilizio la sola installazione di antenne equiparabili a quelle casalinghe, CDS n. 594 del 1988, e comunque ancorate direttamente al suolo: CDS n. 642 del 1986). Ciò comporta che la demolizione dell’opera è misura disposta legittimamente, in quanto essa deve ritenersi abusiva già in forza della normativa applicabile quando fu eseguita.
Ciò vale anche con riferimento alla inosservanza dei numerosi vincoli che l’atto impugnato elenca con adeguato dettaglio, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, con particolare riguardo ai già menzionati vincoli paesaggistico e sismico. Anche in tal caso, e a maggior ragione, il giudicato penale non può esercitare alcuna influenza quanto alla incontestata assenza dell’autorizzazione paesaggistica e del nulla osta sismico. Difatti, l’art. 734 c.p. è reato di danno, e non di pericolo, sicché è ben possibile che esso non sussista in casi che, a fini preventivi, avrebbero invece richiesto in ogni caso tali autorizzazioni.
Nell’ipotesi di specie, dimensioni e caratteristiche del traliccio e delle antenne sono tali, da costituire senza dubbio opera rilevante ai fini dell’autorizzazione, perché incidono sulla componente estetica-visiva del paesaggio. Quanto, infine, alla necessità di munirsi sia del titolo edilizio, sia dell’autorizzazione paesaggistica e del nulla osta sismico, il Tribunale non ha ragione per discostarsi dalla risposta affermativa che la già citata sentenza 956/19 del CDS ha offerto, in analoga fattispecie. Del resto, va da sé, contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente, che l’attuale confluenza in un unico procedimento autorizzatorio dei profili edilizi e urbanistici legati alla realizzazione degli impianti (art. 87 d.lgs. n. 259 del 2003) non significa affatto che la compatibilità di essi con la disciplina propria del territorio sia stata cancellata, ma, piuttosto, che essa andrà valutata in quella sola sede, con divieto di esigere, oltre a ciò, un distinto permesso di costruire (Corte cost. n. 129 del 2006).
Con il secondo motivo, la ricorrente torna ad imputare al Comune, per il verso dell’eccesso di potere, di non avere preso in considerazione l’autorizzazione n. 20 del 1995. Il Tribunale ribadisce che essa non equivale al permesso di costruire, e, circostanza dirimente, non può surrogare l’autorizzazione paesaggistica e il nulla osta sismico. Non ha perciò importanza soffermarsi sull’ulteriore punto in contestazione, ovvero se l’atto del 1995 riguardasse anche l’impianto della ricorrente. 5.3. Con il terzo motivo, si afferma che gli atti impugnati interferiscono illegittimamente con l’assetto impresso dalla concessione ai fini della trasmissione, che impone la copertura del territorio con un segnale dal livello prestabilito e vincolante, al punto che la demolizione potrebbe compromettere lo svolgimento del servizio di pubblica utilità. Sarebbe inoltre imputabile al Comune il mancato reperimento di un sito alternativo dal quale trasmettere, secondo quanto indicato dalla Regione Lazio con delibera n. 492 del 2017. Da ciò la violazione dell’art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003 e l’eccesso di potere. In senso contrario, il Tribunale aderisce a quanto già ritenuto sul punto da CDS n. 956 del 2019 cit.. Basti aggiungere che, in un ordinamento costituzionale ove non militano valori “tiranni” l’uno sull’altro, l’interesse all’esercizio del pubblico servizio non si sottrae al dovuto coordinamento con l’altrettanto vitale interesse all’armonico sviluppo del territorio, e alla preservazione di ambiente e paesaggio.
Nel ricondurre a legalità l’assetto edilizio, urbanistico e ambientale, perciò, non vi è una incostituzionale compressione della libertà di iniziativa economica, ma piuttosto la necessaria premessa affinché essa sia esercitata in forma compatibile con l’utilità sociale (art. 41 Cost.). Quanto al diritto di manifestazione del pensiero, è ovvio che esso non equivale ad acquisire o mantenere la veste di concessionario, ove l’esercizio della concessione rompa la legalità ordinamentale. Quindi, la circostanza che l’amministrazione non abbia rinvenuto un sito alternativo dal quale irradiare il segnale potrà rilevare ad altri fini, ma non certo elidere l’abusività delle opere. Peraltro, il Tribunale auspica che il Comune si attivi per la rapida individuazione di un sito alternativo. 7. In conclusione il ricorso va rigettato, e le spese compensate, tenuto conto del lungo tempo trascorso dall’esecuzione del manufatto abusivo".